Saggi critici
Antonio Corbo, il fantastico visionario
Nella terra della pittura fioriscono piante sempre inaspettate. In quella del pittore Antonio Corbo, molisano di nascita e universale per vocazione, sono apparsi quelli più rigogliosi e straordinari come frutti capaci di rigenerare la luce immota dello spazio infinito e di immobilizzare lo scorrere del tempo. Un’antinomia questa mai in contrasto con se stessa ma che prelude invece la sistematizzazione della ragione. Mi spiego meglio. La pittura di Antonio Corbo non raffigura la scena, non racconta una storia, ma è essa stessa storia e scena raffigurata che si coglie nell’attimo in cui si osserva, in cui si dà. In quelle forme e in quelle storie non c’è un prima né un dopo, ma tutto accade perché è, esiste e palpita in una folgore di forma-colore, di luce-colore, di tempo-colore. E’ il tempo heideggeriano dell’esserci, del Daisen, del dove tutto precipita nel percorso epifanico dell’apparire in quanto tutto è fenomeno del tutto. Non saprei dire quanta meditazione vi sia in ciò che Antonio Corbo fa per raggiungere la pittura, ma certo è che la pittura si lascia volentieri catturare dai suoi quadri. Una pittura di visione che accorpa macro e micro storie come in una cosmogonia calviniana, quasi fosse un pulviscolo di materia decomposta e rarefatta, una sabbia primordiale, polvere di stelle, materia sbriciolata di astri vaganti nello spazio siderale, desiderosa di essere rappresa nella periferia di una tela. Dinnanzi a essa lo spettatore non si chiede cosa significhi, ma da dove viene e dove va tutta quella massa bituminosa di colore che avanza per composto sinfonico in un crescendo wagneriano. Romantico? No, Antonio Corbo è semplicemente un visionario, un fantastico visionario intrappolato nella gioia della rappresentazione che si fa e si disfa, che ora è più e ora meno orizzonte di uno scenario mutevole come è cangiante il pensiero che la sottende. La pittura per Antonio Corbo è il mestiere del vedere prima che del pensare, la potenza è nell’occhio di chi guarda prima ancora che nella mente di chi osserva. Tuttavia essere visionario non vuol dire necessariamente essere irrazionale, bensì usare la ragione in maniera differente, piegarla ad altro esercizio che non sia soltanto quello logico-deduttivo. Per questo Antonio Corbo è anche poeta. Egli utilizza la scrittura come protesi in avanti della pittura, intingendo la mano nell’altrove altrimenti indicibile, inzuppandola oltre il confine dell’inesprimibile tragico quotidiano, per dirla alla De Chirico.
La sua origine non lo distingue, ma lo costringe all’esodo. La terra degli Scarano e dei Trivisonno e perfino dello scandaloso e fascinoso Gino Marotta, tutti grandi artisti molisani del XX secolo, è il territorio dei suoi incubi dai quali vorrebbe staccarsi, ma dai quali viene risucchiato. E’ il legame forte di un sentimento del tempo (Ungaretti) che non scioglie mai il canto della sua terra. E’ quell’eclissarsi di una Ragione dalla Ragione per darsi alle ragioni della non Ragione e, dunque, della visione.
Alessandro Masi